1. Il lieto evento
Se qualche anno fa mi avessero detto che
sarei diventata un’amante dei gatti e per giunta una “gattara” mi sarei di
certo fatta una gran risata perché nella mia vita fino ad allora non avevo mai
manifestato alcun interesse per gli animali. Non che li temessi o che avessi dimostrato
nei loro confronti la ben che minima ostilità: semplicemente per me non esistevano.
Pur apprezzandoli in natura non mi capacitavo come molte persone potessero
spendere tempo e denaro dietro ad un qualsiasi animale domestico arrivando
persino a sacrificare le proprie abitudini di vita, a diventarne addirittura
schiavi. Inoltre ero sinceramente infastidita dalle eccessive effusioni di
molti padroni nei riguardi del proprio animale così come dai loro discorsi,
soprattutto quando ne magnificavano l’intelligenza, la capacità di comprendere le
loro richieste o i loro umori come se fossero dei bambini.
Probabilmente questa mancanza di
interesse derivava dall'ambiente in cui ero cresciuta che rifiutava l’idea che
in casa si potesse tenere un qualsiasi tipo di animaletto. Mio padre essendo
medico era convinto che portassero molte malattie e aveva cresciuto me e mia
sorella con questa convinzione tanto che divenuta più grande, benché
desiderassi la compagnia di un cane, non ebbi mai il coraggio di combattere questa
mentalità familiare per ottenerlo.
Malgrado tali premesse, che facevano di
me un’improbabile detentrice di animali, capitò una circostanza che rivoluzionò
la mia vita e le mie abitudini
Una mattina assai rigida di marzo fui chiamata
imperiosamente dai miei figli, all'epoca adolescenti, a recarmi in salone per
vedere una cosa straordinaria, accorsa vidi dietro l’ampia vetrata che si affaccia
su un lungo balcone, accoccolata nel cesto della legna per il camino, una gatta
contornata da tanti piccoli esserini che a mala pena si distinguevano.
“Guarda mamma” mi disse tutta eccitata
mia figlia “Baffetta ha avuto dei piccoli, ecco perché era diventata cosi
grossa, possiamo occuparci di loro?”
A questo punto è necessario aprire una
parentesi per spiegare che Baffetta, nome datole da mia figlia, era uno degli
innumerevoli gatti randagi che, arrampicandosi sui tetti di alcuni garage
sottostanti al mio appartamento al primo piano, erano avvezzi saltare sul mio
balcone per sistemarsi nei vasi di fiori a godersi in primavera i tiepidi raggi
di sole o in inverno a rincorrersi e fare baruffa durante il periodo degli
amori.
Io non avevo mai fatto nulla per allontanarli
perché, devo ammetterlo, di aver provato ogni volta un certo interesse nell'osservarli dietro alla vetrata, affascinata dalla loro eleganza, dalle movenze flessuose,
dagli occhi ammaliatori, ma al tempo stesso avevo vietato a me stessa e ai miei
figli di dar loro confidenza per paura di esserne coinvolta emotivamente.
Ora di fronte alla richiesta di mia
figlia mi sentivo imbarazzata perché il mio istinto materno stava già
incominciando a solidarizzare con quella piccola gattina alle prese con il suo
nuovo ruolo di madre, così che non ebbi il coraggio di oppormi al desiderio dei
miei figli di provvedere al cibo della puerpera facendo, però, loro promettere
che le bestiole non sarebbero mai dovute entrare in casa.
Questo compromesso mi sembrava che potesse
garantirmi dal coinvolgimento con i nuovi inquilini pur facendo contenti i miei
ragazzi, ciò che, come prevedibile, non avvenne perché lentamente questi piccoli
felini entrarono a far parte della mia vita e della mia famiglia.
Nei giorni che seguirono ci rendemmo
conto che l’ampia parete a vetri si prestava magnificamente come posto di
osservazione per seguire i movimenti di Baffetta e la crescita dei suoi piccoli,
così ognuno di noi prese l’abitudine di passare del tempo ad osservare che cosa
accadeva alla famigliola, venendo in tal modo a conoscenza di un mondo
sconosciuto e meraviglioso.
Baffetta si rivelò una bravissima madre,
pur essendo ancora molto giovane e inesperta non si sottrasse ai suoi compiti
come qualche volta accade, questo lo appresi solo più tardi, se le gatte sono alle
prime gravidanze. Trascorreva la maggior parte del tempo a dormire nel cesto
insieme ai suoi piccoli, allontanandosi solo per brevi periodi o per mangiare
il cibo che le lasciavamo regolarmente in un piattino sul terrazzo o per
scendere nei vari giardinetti degli appartamenti a piano terra, molto
probabilmente per sgranchirsi le zampe dopo quei lunghi periodi di riposo
forzato.
I piccoli nelle prime settimane di vita
si muovevano poco e in modo scoordinato, non essendo ancora in grado di vedere
si arrampicavano con molta difficoltà sul corpo della madre facendosi spazio a
scapito di qualche altro fratellino che spesso veniva scacciato più lontano
dalle posizioni ambite. Baffetta durante queste grandi e faticose manovre dei
suoi piccoli rimaneva sdraiata immobile, solo ogni tanto alzava un po’ su il
capino e li incominciava a leccare con grande premura e precisione dedicando
molto tempo a questa incombenza.
Ma l’allattamento attirava maggiormente
la nostra attenzione perché eravamo preoccupati che Baffetta, stendendosi nel
cesto per assolvere il suo compito materno, non si curasse di soffocare con il
peso del suo corpo alcuni piccoli che spesso rimanevano sotto di lei riuscendo
a mala pena a farsi strada verso le sue mammelle.
“Baffetta sta schiacciando quel piccolo
nero che non riesce ad emergere da sotto il suo ventre”, mi faceva notare
preoccupato molto spesso mio figlio, “E quell'altro grigio non riesce a
raggiungere il capezzolo della madre per alimentarsi, sembra troppo fragile,
non vedi come gli altri lo allontanano con forza, come lui dopo pochi timidi
tentativi abbandona il campo ai fratelli più forti e intraprendenti?
“Non è giusto” interveniva mia figlia.
“Perché Baffetta non fa qualcosa invece di rimanere distesa, con quel muso
beato e non aiuta il suo piccolo in difficoltà? “E’ proprio una gatta sciocca”.
Anche io rimanevo disorientata dal
comportamento di Baffetta, ma ricordandomi che nulla in natura accade per caso,
cercavo di dare delle risposte convincenti ai miei figli: “Non è una madre
snaturata Baffetta, è semplicemente l’istinto che la guida e voi sapete bene
che in natura vige la legge della selezione naturale: i più forti sono
destinati a perpetuare la specie, i più deboli a soccombere. Appena la madre li
avrà svezzati dovranno provvedere a loro stessi, essere in buona salute per
affrontare i rigidi inverni e per difendere il territorio e questo non sarà
possibile se non saranno fisicamente idonei.”
“Si, hai ragione”, condividevano i ragazzi,
“però è penoso per noi assistere impotenti a certe scene, non poter intervenire
in soccorso dei più deboli e vederli lentamente perdere le forze e soccombere”. “Anche io me ne dispiaccio”, cercavo di
confortarli, “ma credo che non potremmo fare molto anche se lo volessimo perché
sono troppo piccoli e se noi togliessimo i più deboli alla madre per alimentarli
artificialmente non avremmo molte speranze di salvarli”.
Quando facevo questi discorsi ai miei
figli ero mossa dal desiderio di confortarli e non perché avessi esperienza di
come si allevassero gattini di pochi giorni, ma con il tempo e con la pratica
mi resi conto che le mie non erano state delle pietose bugie perché è
estremamente difficile nutrire un gattino al di sotto delle due settimane di
vita. Quando dopo circa due settimane Baffetta incominciò ad assentarsi un po’
più a lungo, per noi fu possibile uscire sul balcone per osservare da vicino i
cuccioli che nel frattempo avevano acquisito le fattezze di piccoli gatti in
miniatura.
I
cuccioli erano ben cinque, due neri, uno grigio, uno pezzato bianco e nero ed
uno identico alla madre: il dorso nero, il ventre bianco, ed il muso con una
graziosa mascherina nera che gli contornava gli occhi. Malgrado i nostri timori,
sembravano in buona salute, solo uno dei neri era molto gracile e rimaneva in
disparte mentre gli altri incominciavano a muoversi nel cesto con più sicurezza
montando l’uno sull'altro quando la mamma era via per farsi calore.
Ma il pericolo che qualche piccolino non
ce la facesse a superare le prime difficoltà della vita non era ancora superato
ed un giorno purtroppo, osservando come ormai d’abitudine nella cesta i
piccoli, vidi il gattino nero più gracile giacere troppo immobile mentre i
fratellini gli salivano sopra, lo travolgevano spingendolo contro le pareti
della cesta. Capii che era morto ma sperai di sbagliarmi e che al ritorno dei
ragazzi da scuola avesse recuperato le forze, riprendendo a muoversi nel suo
buffo modo scoordinato. Ma all'ora di pranzo ci dovemmo tutti con grande
disappunto arrendere all'evidenza: il piccolo era proprio morto.
“Bisogna provvedere a seppellire il
gattino” pensai, “prima che venga del tutto calpestato dai fratelli.” Ma mentre
ragionavo non sapevo cosa fare perché l’idea di uscire sul balcone per
prenderlo mi metteva a disagio.
Mi rivolsi allora al mio portiere che
molte volte si era vantato con me di conoscere le abitudini degli animali
essendo nato e cresciuto in campagna. “Signora lei non deve proprio fare
niente” mi disse pieno di sussiego per essere stato interpellato. “Come?” Non devo toglierlo dal cesto, è
sicuro Giacomo?” “Certamente farà tutto
la madre, lo prenderà e lo sotterrerà in qualche posto sicuro” insistette
convinto con aria grave di chi la sa lunga e soddisfatto di trovarmi
impreparata su un argomento per lui abbastanza banale.
Malgrado Giacomo fosse certo che la
madre sarebbe intervenuta ad occuparsi del piccolo io non lo ero affatto. Più
volte nella giornata mi ero avvicina alla vetrata per vedere se il gattino ancora
giacesse lì o fosse stato portato via dalla mamma, ma ogni volta provavo una stretta
al cuore osservandolo abbandonato in un angolo del grande cesto.
Quando ormai a sera mi apprestavo ad
uscire sul balcone per prenderlo e riporlo in una scatola che avevo preparato,
intravidi, attraverso le inferriate della ringhiera, Baffetta ritornare dalla
sua passeggiata. Prontamente rientrai rimanendo ad osservare dietro alla
vetrata e ai miei occhi si presentò una scena che mi lasciò commossa e
sbalordita.
Baffetta invece di infilarsi come di
consueto nel cesto per allattare incominciò a girarvi intorno più volte poi,
fermatasi in corrispondenza del morticino lo annusò a lungo toccandolo a più
riprese con la zampetta come per costatare se si muovesse; resasi conto che non
rispondeva a nessuna sollecitazione, dopo vari tentativi andati a vuoto, lo
afferrò con la bocca per la collottola e lentamente si allontanò con il suo
triste fardello, sparendo con un balzo alla mia vista, in direzione del
giardinetto sottostante. Giacomo aveva avuto ragione!
Per tutto il tempo che Baffetta si
occupò dei suoi piccoli io continuai le mie osservazioni e piano piano
incominciai anche a riconoscere i numerosi gatti della colonia felina che si
era acquartierata già da molti anni nella mia strada e nelle limitrofe,
divertendomi insieme ai miei figli ad attribuire loro dei nomi ispirati dalle
loro fattezze fisiche o dalle abitudini. Mentre prima della nascita dei piccoli,
i gatti salivano sul mio balcone senza tanti complimenti, marcando quello che
ritenevano il loro territorio, con frequenti schizzi di orina, che naturalmente
non mi erano molto graditi per il forte olezzo, dopo la presenza della
famigliola, cominciarono a farsi più guardinghi. Saltavano su miagolando ma
quando si rendevano conto della presenza della madre con i lattanti procedevano
incuriositi verso di loro molto cautamente come se aspettassero un segnale per
potersi avvicinare. Baffetta dal suo cesto li osservava con molta attenzione
con le orecchie tese, a volte permetteva che qualcheduno si avvicinasse ad
annusare i piccoli, altre li allontanava alzandosi repentina dal cesto e
andando loro incontro soffiando.
Nessuno a seguito di tale avvertimento aveva
tentato di forzare il blocco per avvicinarsi, ma fatto dietro front, era
ritornato su i suoi passi. Ad un solo gatto non era mai vietato l’accesso alla nurserie tanto che non solo poteva avvicinarsi
per curiosare ed annusare ma anche leccare i cuccioli e, quando qualche volta
Baffetta era assente, infilarsi con loro nella cesta. Io lo conoscevo di vista
e lo avevo soprannominato Codamozza perché aveva soltanto un mozzicone di coda,
era un maschio grosso e massiccio, non molto alto ma di corporatura possente,
avanzava sicuro a testa bassa mentre gli altri gatti si facevano da parte, sul
suo corpo dal pelo raso e completamente nero erano evidenti numerose cicatrici
e molto spesso le sue orecchie si mostravano lacerate e sanguinolente.
Era evidentemente il maschio dominante del
quartiere, il boss che tutti o quasi rispettavano; trascorreva il tempo
pattugliando il territorio, entrando ed uscendo dai giardinetti condominiali, saltando
sui muretti divisori delle varie palazzine ricoperti di vegetazione rampicante,
dove d’estate trovava riparo dalla calura o sdraiato sotto le automobili per
godere, durante i mesi freddi, del tepore dei motori appena spenti. Molte volte
lo avevo visto dalla finestra attraversare la strada lentamente, incurante del
sopraggiungere delle auto, sicuro che al suo passare tutti si sarebbero fermati.
Dal comportamento di Baffetta nei suoi
confronti e dal suo atteggiamento verso i piccoli mi convinsi che fosse il
padre anche perché le sue visite erano molto frequenti e perché, quando era
presente, impediva ai maschi di avvicinarsi.
Codamozza stava anche molto volentieri
nel giardino di un appartamento che si affaccia davanti alle mie finestre non
mostrando nessuna paura per la presenza di due nerboruti bulldog con i quali
sembrava aver raggiunto un compromesso: ignorarsi a vicenda. Qui un giorno
mentre si crogiolava al sole sentii chiamarlo dall'abitante di quella casa “Cagliostro”
con una certa famigliarità, ma per me rimase fino alla fine Codamozza anche se
il soprannome mi parve abbastanza azzeccato per il suo sguardo misterioso e
ammaliato.
Continua.....
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