Un’estate da ricordare

 




Era l’estate del duemilacinque ed ero alla guida della mia amata Alfa Romeo Giulia sprint GT (che sta per “Gran Turismo”) rosso fiammante comprata da mio padre esattamente nel 1967 per il suo cinquantesimo compleanno. Ricordo di averla adorata appena l’ho vista nonostante la mia giovane età, all'epoca avevo solo 7 anni ma sin da piccolissimo le auto sono state sempre la mia passione. Mio padre pure essendo molto geloso mi permetteva ogni tanto di sedermi al posto di guida e di afferrare il volante ed allora io immaginavo di essere su qualche strada sterrata a correre a tutta velocità. In quegli anni questa automobile è stata il sogno di molti italiani diventando in poco tempo una delle vetture più desiderate. Il passo accorciato, la disposizione del motore e del cambio anteriore con trazione posteriore aumentava il piacere di guida rispetto ad altre berline. Il motore era un quattro cilindri bialbero da 1.6 litri di cilindrata che erogava 109 cavalli di potenza, una scheggia per quegli anni.

Mio padre la tenne trent’anni come un gioiellino, neanche un graffio o un bozzetto a scalfire la sua immutata bellezza. Alla sua morte non pensai neanche per un secondo di darla via, continuai ad occuparmene io con la stessa cura ed attenzione, arrivando ad oggi praticamente perfetta.

Ritornando con la memoria a quel giorno di luglio di qualche anno fa, stavo percorrendo con la mia Giulia la superstrada che mi avrebbe portato da lì a breve nel paese di Telizia, un piccolo borgo medievale ai piedi del monte Sammoto. Non avevo particolare fretta di arrivare e mi godevo il tragitto, l’aria frizzantina della mattina, il cielo di un blu cristallino e la campagna incontaminata, fumando la mia seconda sigaretta della giornata. Sapevo che gli attori e le maestranze erano già arrivate ma che le prove sarebbero cominciate solo nel pomeriggio. All'epoca ero il regista di una piccola compagnia teatrale itinerante che in quel periodo portava in scena una mia personale rivisitazione di “La panne. Una storia ancora possibile” romanzo scritto nel 1956 da Friedrich Dürrenmatt rappresentato spesso a teatro. Mentre procedevo ascoltando Piazza Grande canzone del’76 di Lucio Dalla, (secondo il mio personale giudizio una delle più belle voci italiane) che proveniva dall'autoradio, nella quale avevo inserito una vecchia musicassetta ritrovata nel vano portaoggetti della macchina, la mia attenzione fu richiamata da un’automobile ferma sul lato destro della strada. Accanto alla vettura in piedi c’era immobile una giovane donna con in braccio un bambino di circa due anni. Il bambino piangeva e si dimenava. La signora non avrà avuto più di trentacinque anni, vestiva sportivamente con un paio di jeans e una maglietta verde chiaro ma aveva lo sguardo fisso nel vuoto, gli occhi lucidi come se avesse smesso di piangere da poco e teneva il figlio stretto al suo petto nonostante questo scalciasse con tutte le sue forze, quasi avesse paura che qualcuno glielo potesse strappare via dalle mani. Ci fu qualcosa in quello sguardo così innaturale che mi fece accostare e fermare l’auto subito dietro a quella della donna. Quando a passo lento, per non spaventarla, mi avvicinai a lei, questa sembrò finalmente risvegliarsi da un sogno ad occhi aperti e sorpresa della mia presenza indietreggiò leggermente. Cercai subito di tranquillizzarla facendole capire che non avevo assolutamente brutte intenzioni, a quell'ora la strada era ancora deserta e non volevo che lei fraintendesse i miei più che buoni propositi. Con voce rassicurante mi presentai:

“Buongiorno signora mi chiamo Federico Forti, sono un avvocato e sono diretto a Telizia. Ho avuto la sensazione che lei si trovasse in difficoltà, la sua automobile si è rotta? Ha bisogno di aiuto?”

La donna dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi reputò che probabilmente non ero una minaccia e con un fil di voce mi disse: “No la ringrazio, è tutto a posto. Ho finito la benzina. Certe volte quando sono alla guida mi distraggo e non guardo la spia del serbatoio. Non è la prima volta che mi succede. Improvvisamente l’auto comincia a singhiozzare e poi si spegne ed allora mi rendo conto di aver dimenticato di fare rifornimento.” Mi rispose con voce bassa ma tutto di un fiato, cercando di mostrarsi serena e abbozzando un debole sorriso quasi a volermi tranquillizzare.

“Vuole che chiami qualcuno? Suo marito? Un’officina che le venga a portare della benzina? Come posso rendermi utile?”

“La ringrazio, ma ho chiamato proprio cinque minuti fa mio marito, tra poco sarà qui. Non deve preoccuparsi per me, non ce n’è bisogno.” Mi rispose e per dare consistenza alle sue parole tirò fuori dalla tasca dei jeans che indossava un vecchio cellulare per mostrarmelo.

“Va bene, allora se non le serve aiuto riprenderei la mia strada. Le auguro una buona giornata.”

Così dicendo mi allontanai per salire nuovamente in auto ma con la strana sensazione che ci fosse qualcosa di non detto che forse avrei dovuto capire se avessi posto la giusta attenzione.

Arrivai dopo circa mezz’ora nel piccolo paese di Telizia che d’inverno ospitava non più di 3000 anime ma che d’estate poteva arrivare a contenerne anche il doppio per l’arrivo di turisti, parenti e amici degli abitanti che d’estate scappavano dalla città in cerca della frescura della campagna.

Decisi di fermarmi a fare colazione in uno dei bar, ero partito digiuno e adesso sentivo la necessità di rifocillarmi con un doppio caffè forte e un cornetto, poi portai i bagagli in albergo dove mi attendeva la compagnia. Pranzammo tutti insieme in una trattoria caratteristica del luogo assaggiando i piatti del posto annaffiati da un generoso bicchiere di vino rosso, prodotto dal proprietario, che mise tutti di buonumore compreso il sottoscritto che però non poteva fare a meno ogni tanto di tornare con la mente a quello strano incontro della mattina che mi aveva lasciato uno insolito disagio addosso. Comunque il pomeriggio non ci pensai più, concentrato sulle prove generali dello spettacolo che sarebbe andato in scena la sera seguente nello spazio che il Comune aveva predisposto per la rassegna teatrale all'aperto che si sarebbe svolta per tutta l’estate. Il nostro spettacolo era previsto per due sere di seguito. Generalmente una volta controllato, durante la prova generale, che tutto si fosse svolto nel modo migliore non rimanevo per lo spettacolo ma tornavo in città, era una rappresentazione che avevamo riproposto già diverse volte e la mia presenza non era necessaria. Ma quella volta mi ero voluto prendere una pausa dal mio vero lavoro, quello di avvocato in quanto facevo il regista solo per passione, e dalla famiglia che per un paio di giorni avrebbe potuto fare a meno di me; mia moglie Michela si era trasferita come di consueto per il mese di luglio ad Ischia con i bambini ed io li raggiungevo solo nei fine settimana.

Le prove andarono avanti fino a sera inoltrata, avevamo avuto qualche problema nel sistemare la scenografia, il palco si era rivelato più grande del previsto e dovemmo ingegnarci con un fondale nero per coprire le parti scoperte. Inoltre una delle attrici, Giselle, ebbe un leggero malore dovuto al sole forte che nel pomeriggio aveva invaso il piazzale per cui fummo costretti a sospendere le prove per un’oretta, il tempo necessario che lei si riprendesse.

Dopo aver consumato un pasto veloce verso mezzanotte e mezza ero finalmente in camera. Era stata una giornata intensa volata via velocemente e ora avevo bisogno di rilassarmi un po'. Aprii la porta finestra che dava su un piccolo balconcino fiorito e mi stesi sul letto godendomi il venticello serale che entrava nella stanza fumando un’ultima sigaretta; sperando che Morfeo mi cullasse nelle sue braccia, facendomi fare un lungo sonno ristoratore dato che da diverso tempo, senza una spiegazione plausibile, mi svegliavo sempre verso le 4,30 del mattino e non c’era verso di riaddormentarmi. Purtroppo anche quella notte non riuscii a riposare bene e mi svegliai con una brutta sensazione addosso, mi sembrava di portare un fardello pesante sulle spalle.

La mattinata comunque passò tranquillamente, insieme agli altri visitammo il piccolo borgo che era veramente un incanto. Ci accompagnò nella passeggiata il figlio del sindaco, guida turistica locale che ci fece vedere tutti gli scorci più belli della zona e ci condusse poi con la seggiovia sulla sommità del monte Sammoto da cui si godeva un bel panorama: un’estesa vallata circondata da monti. A pranzo ci fermammo a mangiare in una baita ai piedi della montagna, salsiccia e scamorza alla griglia, una delizia per il mio palato. Un’unica nota stonata era l’immancabile televisore, posizionato in alto in un angolo della sala, che trasmetteva in quel momento le immagini di un telegiornale riportandomi forzatamente alla realtà.

Mentre distrattamente vedevo passare i diversi servizi, improvvisamente fui attirato dalla foto di un bambino biondo sorridente di non più di due anni che avevo la sensazione di aver già visto e poi subito dopo di quella di una donna con un’espressione in volto un po' corrucciata. Appena la vidi il primo gesto istintivo fu quello di alzarmi dalla sedia ed avvicinarmi allo schermo per sentire cosa stesse dicendo l’inviato. Mentre mi dirigevo velocemente verso il televisore cominciai a distinguere le prime parole del giornalista: “Il bambino di nome Giulio stava giocando in giardino con il cuginetto, il cancello che dà sulla strada era chiuso, il padre si è allontanato solo un minuto per andare a prendere un berretto da mettere in testa al figlio per proteggerlo dal sole forte. Quando l’uomo è tornato in giardino il cancello era aperto e il figlio era scomparso. Il padre ha dato subito l’allarme e poco dopo sono state avviate le ricerche. L’uomo Giorgio Odino era da circa sei mesi separato dalla moglie Ottavia Mastretti ottenendo l’affido esclusivo del bambino. La giovane donna era stata allontanata dal marito a causa dell’abuso che questa faceva di sostanze stupefacenti. Purtroppo la signora in adolescenza aveva fatto uso di droghe ma l’incontro a venticinque anni con il marito l’aveva spinta a disintossicarsi. Negli anni successivi la vita della donna si era svolta serenamente fino alla nascita del loro bambino, ma a causa di una forte depressione, Ottavia Mastretti aveva poi ricominciato a fare uso di droghe. La donna al momento risulta irrintracciabile.” Le immagini continuavano facendo vedere la villetta con il giardino da cui il bambino era scomparso e la scritta riportata in basso sul televisore diceva che si trovava in una piccola frazione a pochi chilometri da Telizia. A quel punto non potei fare a meno di imprecare, ero stato un vero stupido.

Non finii neppure di mangiare, senza neanche salutare gli altri corsi alla stazione dei carabinieri del paese.

Qui conobbi il maresciallo Mario Pereira, uno degli uomini più ottusi che abbia mai conosciuto in vita mia, me ne accorsi subito già al primo sguardo, per il modo supponente con cui guardava tutti, squadrando dall'alto in basso. L’uomo avrà avuto all'epoca poco più di cinquant'anni, alto circa un metro e ottanta aveva i capelli pettinati all'indietro ricoperti da uno alto strato, almeno un dito, di gel che li rendeva alla vista unti ed appiccicati. Aveva un paio di folti baffi e la fibbia dei pantaloni della divisa gli tirava sul ventre prominente tanto che i bottoni della giacca sembravano ormai prossimi a staccarsi. A prima vista non faceva una bella impressione. Dovetti aspettare più di un’ora prima che mi ricevesse nonostante avessi fatto capire ad un appuntato di guardia all'ingresso che fossi impossesso di importanti informazioni sul caso del bambino scomparso. Quando finalmente si degnò di parlarmi mi trattò con sufficienza non tenendo in gran considerazione quello che gli raccontai. Mi disse che aveva ricevuto già diverse segnalazioni di persone che avevano visto il bambino e la donna ed erano risultate tutte notizie prive di fondamento e così mi trattò come fossi un mitomane. Solo grazie alla testimonianza di un’altra persona del posto che disse anche lei di aver visto, passando in motorino, la donna ferma sul ciglio della strada insieme al bambino che si decise a mandare una volante a controllare e fu così che fu ritrovata a poca distanza nascosta fra i cespugli la macchina di Ottavia Mastretti.

Furono immediatamente avviate le ricerche ma la speranza di trovarli era debole, erano passate già più di ventiquattro ore, potevano essere ovunque. Era probabile che la donna avesse chiamato qualcuno per farsi venire a prendere o fermato un’auto per chiedere un passaggio da qualche parte. Ma, considerando che fino a quel momento nessuna segnalazione era stata fatta che provasse la veridicità di queste ipotesi, nell'attesa di ulteriori informazioni, tutta la campagna circostante fu battuta palmo a palmo da forze dell’ordine e volontari e fra questi c’ero anche io. Non riuscivo a perdonarmi di non aver capito la situazione, certo non potevo immaginare che la donna avesse rapito il figlio ma era chiaro che era molto scossa, provata forse se le avessi parlato rassicurandola avrebbe potuto cambiare idea sui suoi propositi o forse no, ma comunque non mi davo pace. Così passai tutto il pomeriggio a perlustrare la folta vegetazione della campagna intorno a Telizia, saremmo stati quasi un centinaio a cercare la donna e il bambino. Si unirono molti abitanti del piccolo borgo ed io mi ad accodai ad un paio di giovani che stavano battendo la zona est. Nonostante la differenza di età riuscivo a tenere il loro passo anche se con qualche difficoltà ma il mio abbigliamento non mi aiutava, quella mattina avevo indossato un paio di pantaloni di cotone color kaki e delle scarpe da passeggio non adatte a quel tipo di terreno. Due giorni prima aveva piovuto molto e la terra era ancora intrisa d’acqua, c’erano ampie pozzanghere e fanghiglia che era difficile riuscire ad evitare così in breve mi ritrovai con i pantaloni zuppi e le scarpe piene d’acqua e procedere spediti tra rovi e alberi non era semplice. Arrivai a sera che ero distrutto e dei due fuggitivi non c’era traccia, sembravano essersi volatilizzati, il che era improbabile: un bambino di due anni non può percorrere grandi distanze e se la madre lo avesse preso in braccio non sarebbe riuscita ad allontanarsi di molto. Cominciavo a non sentire più i piedi e le mie gambe si erano fatte dure come tronchi quando sentii delle persone richiamare l’attenzione di tutti i volontari. In lontananza vedevo un gran movimento, molti uomini si stavano recando in un punto preciso a nord che riuscivo a distinguere a malapena così con le ultime forze che avevo in corpo mi misi a correre in quella direzione. Ci misi qualche minuto per raggiungere il luogo esatto e quando mi resi conto di quello che stava succedendo mi si gelò il sangue nelle vene, smisi per qualche secondo di respirare.

Volontari e forze dell’ordine circondavano un punto preciso del terreno cercando di fare luce con delle torce, mentre mi avvicinavo vidi che vi era un grosso buco nel suolo, sembrava un pozzo, più tardi mi spiegarono che si trattava di una cava ipogea ormai in disuso. Non avevo idea che esistessero in quella zona invece mi dissero che ce ne erano diverse, dismesse vie di accesso ad un mondo ormai scomparso. Conducevano nel sottosuolo, in labirinti di gallerie da cui venivano estratte quantità enormi di calcarenite con i quali venivano una volta costruite le nostre case. La calcarenite si trova ad una profondità che può andare oltre i 30 metri tanto che in alcune zone si può arriva a 50 metri di profondità.

Quando finalmente riuscii ad avvicinarmi e farmi spazio per guardare all'interno della cava vidi il bimbo a diversi metri di profondità, bloccato tra le pareti rocciose. Un leggero restringimento aveva per fortuna ostacolato la sua discesa, se fosse precipitato fino in fondo sicuramente non sarebbe sopravvissuto. Si sentiva invece provenire un flebile lamento e un fioco piagnucolio, prova che era ancora vivo, non avevamo però idea da quante ore si trovasse lì, era chiaro che bisognava agire in fretta non c’era tempo da perdere. Nel frattempo i vigili del fuoco avevano portato l’attrezzatura necessaria per illuminare al meglio la cava e per cercare di tirare fuori Giulio da lì. Mentre la campagna circostante veniva illuminata mi chiesi che fine avesse fatto la madre del bambino, di lei sembravano essersi perse le tracce. Quando all'improvviso si sentì provenire un urlo da un soccorritore a qualche decina di metri di distanza, visto che in quel momento non si poteva fare altro, alcuni di noi corsero seguendo il richiamo. Quando giungemmo lì trovammo ai piedi di un grosso albero la donna, viva ma priva di sensi, aveva numerose escoriazioni sulle mani e lungo le braccia e una brutta ferita in testa. I sanitari giunti poco dopo sul luogo le prestarono subito le prime cure. Nonostante tutto ero contento che fosse stata ritrovata, le sue colpe sarebbero state decise in altre sedi e da persone competenti non stava a me giudicare, adesso la mia sola preoccupazione era per il bambino che si trovava in una situazione di grave pericolo, quindi decisi di ritornare in fretta alla cava. Mi avvicinai al gruppo dei soccorritori che stava organizzando il recupero per dare quanto possibile il mio contributo ma, già dalle prime parole, mi resi conto che l’impresa sarebbe stata ardua. Stavano dibattendo su come tirarlo fuori, il rischio maggiore era che, cercando di afferrarlo, scivolasse ancora più in basso diventando impossibile riportarlo in superficie. Alcuni di loro avrebbero voluto aspettare una task-force di speleologi, ingegneri, navy seal italiani che con scavatrici e attrezzature all'avanguardia riuscissero a prenderlo, ma questo avrebbe comportato aspettare diverse ore mentre qui non c’era tempo da perdere. Ogni minuto che passava i lamenti di Giulio diventavano sempre più deboli e non si sapeva se avesse riportato ferite profonde o avesse sbattuto la testa nella caduta dovevamo agire subito non si poteva attendere che qualcuno ci venisse ad aiutare. Alcune donne cercavano con parole dolci di tenerlo sveglio, gli parlavano, gli cantavano filastrocche tentando di coinvolgerlo ma lui continuava solo a gemere con un fil di voce che diventava sempre più flebile. L’unica possibilità era che un volontario si calasse a testa in giù nella cava facendo molta attenzione a non toccare le pareti che tendevano a sbriciolarsi facilmente e che stretto a sé Giulio lo riportasse in superficie. Il diametro della cava era abbastanza stretto, serviva un uomo magro, agile che non soffrisse di claustrofobia e con una buona vista notturna ma nessuno dei vigili del fuoco o delle forze dell’ordine aveva queste caratteristiche fisiche e quei pochi volontari che le avevano non si sentivano in grado di affrontare un’azione così rischiosa. Così decisi che non potevo indugiare oltre e mi feci avanti. All'epoca avevo quarantacinque anni e un fisico asciutto, avevo parecchi chili in meno rispetto ad oggi non perché non amassi la buona cucina ma perché i ritmi lavorativi frenetici di allora mi portavano spesso a saltare i pasti e, anche se non ero mai stato un grande sportivo, avevo grande resistenza alla fatica. Quando mi ponevo un obiettivo lo raggiungevo, nulla mi spaventava. Ricordo ogni istante di quei momenti, l’iniziale resistenza da parte delle forze dell’ordine ad acconsentire che io scendessi nella cava, la lunga procedura per indossare la pesante imbracatura di sicurezza, il momento in cui attaccata al gancio della cintura la fettuccia di poliammide che mi avrebbe trattenuto dalla caduta cominciarono a calarmi lentamente nella cava. Quelli furono attimi di fortissima tensione. Ricordo nitidamente l’ansia che provai durante la discesa: il sudore che mi gocciava dalla fronte, il buio che mi inghiottiva, il freddo che si insinuava nelle ossa, la paura che mi colse quando finalmente mi trovai vicino al bambino. Giulio emetteva ormai solo un respiro che sembrava un lieve rantolo, aveva del sangue rappreso tra i capelli. Dovevo sbrigarmi. Passai minuti di vero terrore: se avessi sbagliato la presa, se lui avesse fatto qualche movimento imprevisto, se avessimo inavvertitamente toccato le pareti friabili della cava lui sarebbe potuto precipitare nel vuoto e io non avrei potuto fare nulla per arrestare la sua corsa. Facendomi luce con la torcia del casco e muovendomi con gesti lenti e precisi riuscii con gran fatica ad assicurare una imbracatura al bambino e con un moschettone a legarlo alla mia cintura. Quando fui sicuro che Giulio fosse ben stretto a me tirai con forza la fettuccia e urlai che ci facessero uscire da lì. La risalita mi sembrò interminabile, ogni tanto la carrucola si bloccava arrestando la nostra corsa e tenendoci sospesi nel vuoto, finché improvvisamente mi ritrovai a riveder le stelle e un cielo blu che non era mai stato così bello. Ancora però non potevamo cantare vittoria, Giulio aveva bisogno di cure immediate perché la sua vita era in pericolo, fu rapidamente portato in ospedale e le ore successive furono le più delicate, il tempo continuava a sembrarci sospeso. La mattina successiva i medici ci diedero la bella notizia: Giulio nonostante una commozione celebrale e una forte disidratazione era fuori pericolo. Ora si poteva festeggiare!

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